“ Le tue radici sono profonde nella tua terra e ti trattengono nel tuo Paese, anche se sei lontano nello spazio e nel tempo. Non dimenticare le tue radici. Senza radici non hai linfa, senza radici non puoi vivere, senza radici non cresci, senza radici non ti riconosci, senza radici non hai cultura, senza radici non… voli ”
Ho scritto questo aforisma in un momento di particolare consapevolezza e gratitudine verso tutto ciò che nel corso della mia lunga esistenza mi ha aiutato a crescere e a realizzarmi come medico e, soprattutto, come uomo. E’ strano parlare di me, soprattutto in riferimento al passato, ai progetti pensati e poi realizzati spesso in contrasto con le teorie correnti e gli insegnamenti accademici. Ancora oggi, nonostante l’età avanzata, mi piace guardare avanti e pensare a soluzioni innovative che possano cambiare il destino di tante persone affette da malattie riguardanti l’apparato locomotore. Amo le sfide, le ho sempre amate. Come quando, appena laureato, mi dedicai alle lesioni della mano, così frequenti allora ( si era nel periodo post-bellico con industrie che fiorivano ovunque senza alcuna protezione e prevenzione degli incidenti sul lavoro) e per lo più abbandonate all’ultimo e meno preparato degli assistenti. Le fini tecniche, diagnostiche e chirurgiche, che avrebbero più in là caratterizzato la chirurgia della mano, erano ancora tutte da inventare. Fu così che iniziarono i miei viaggi all’estero per imparare il più possibile da quei pochi pionieri europei e americani che si dedicavano alla mano, struttura estremamente complessa dal punto di vista anatomico e funzionale ma, soprattutto, importante organo di relazione. La mano accarezza, la mano prega, la mano chiede, la mano parla, la mano indica, la mano aiuta, la mano sente e vede. E opera…
La mano, organo mirabile a tutti gli effetti, da conoscere e rispettare. La Società Italiana di Chirurgia della Mano nasceva in Italia l’ 8 Dicembre 1962; eravamo in otto quando fondammo questa Società che oggi vanta circa 500 iscritti. Fu proprio il mio interesse per la mano, con le sue fini strutture vascolari e nervose a portarmi alla microchirurgia. Si era allora agli inizi degli anni ‘60 e i nervi erano strutture sconosciute, da guardare a debita distanza e, soprattutto, da non toccare quando li si incrociava nel campo operatorio. Iniziai così, primo in Italia, con il microscopio chirurgico, a studiare meticolosamente con fini dissezioni e con stimolazioni elettriche intraoperatorie i nervi periferici per localizzare, al loro interno, la posizione di fasci di fibre con funzioni diverse; questo, al fine di affrontare in modo corretto le fibre motrici e sensitive per riottenere una corretta funzione. Ho disegnato decine di mappe dei vari nervi per uso mio personale che poi, ulteriormente arricchite, hanno rappresentato per decenni la guida a giovani chirurghi che intraprendevano la difficile arte della microchirurgia nervosa. Per operare bene nervi e vasi occorrevano anche strumenti particolari che allora non esistevano. Alcuni ne fabbricai io, modificando per esempio le mollette dei capelli delle donne da usare come clamps che servivano per arrestare temporaneamente il flusso sanguigno mentre si riparavano i vasi di piccolo diametro ( 2-3 mm e anche meno ), altri erano già sul mercato come le fini pinze da orologiaio. Altri ancora li ottenni dalle Aziende produttrici di strumenti chirurgici dopo aver discusso con i loro ingegneri le caratteristiche “ microscopiche” degli strumenti stessi. In realtà il set di ferri microchirurgici consisteva di pochi attrezzi delicatissimi e specializzati come: forbicine rette e curve, approssimatori, pinze rette e curve, portaghi. Anche gli aghi e i fili erano particolarmente sottili, tanto da essere visibili solo sotto il microscopio. Iniziava così la grande avventura della microchirurgia in Italia e nel resto del mondo che consentì interventi mai immaginati sino ad allora. Molti i campi della chirurgia generale e specialistica che furono travolti dal ciclone della microchirurgia ampliando così enormemente le loro possibilità di intervento e dunque di guarigione di tante malattie sino ad allora senza soluzioni.
Il campo dell’ Ortopedia si arricchì ben presto di interventi molto particolari ed efficaci. Come quelli sul plesso brachiale ( intricata struttura di nervi che dal collo si dirigono alle braccia passando sotto la clavicola e poi nell’ ascella ). Si era agli inizi degli anni ’70 e l’amico Algimantas Narakas a Losanna aveva cominciato a operare con tecnica microchirurgica le paralisi di plesso brachiale sempre più frequenti a causa degli incidenti motociclistici.
Decisi di andare a vedere i suoi interventi e, tornato in Italia, cominciai questa chirurgia difficile e complessa. In quel periodo operammo, presso il dipartimento di Ortopedia e Traumatologia degli Spedali Civili di Brescia, oltre 1000 persone affette da paralisi dell’arto superiore da lesione di plesso, con risultati molto soddisfacenti nel recupero funzionale del braccio che, in termini pratici, equivale a dire che centinaia di persone sono tornate alla vita attiva e lavorativa. Ci voleva coraggio sia perché l’ intervento era di difficile esecuzione tecnica sia perché il successo non era sempre garantito. Tante le variabili che entravano in gioco.
Di bello allora c’era che il malato si affidava ciecamente al chirurgo, che interveniva secondo scienza, coscienza e, appunto, coraggio.
Un altro intervento che la microchirurgia rese possibile e che eseguii con notevole trepidazione fu il reimpianto totale di un arto amputato. Era il 1973. Il mio primo reimpianto ( e primo in Europa ) aveva il dolce volto di Luciano, un ragazzo di13 anni che aveva perso il braccio nella lavatrice industriale dell’ azienda di famiglia. Ricordo che arrivò una sera di Luglio in Ospedale. Ad accoglierlo io e Luisa. Il braccio non era con lui. Chiesi subito di andarlo a prendere, ovunque fosse. Io ero pronto, tecnicamente pronto, grazie alla microchirurgia sperimentale che praticavo ogni giorno nel laboratorio di ricerca.
Luciano fu il primo di innumerevoli reimpianti eseguiti con successo da me e dalla mia equipe. In breve tempo Brescia divenne Centro di riferimento per i reimpianti che arrivavano da tutte le parti d’Italia e dall’estero, ma anche Centro di formazione per i numerosi chirurghi che frequentarono i 37 corsi teorico-pratici di microchirurgia. La strada era ormai aperta e cominciarono a nascere vari Centri di Microchirurgia sparsi in tutt’Italia. E non solo! A frequentare il Corso un bel giorno venne un medico italiano, Antonio Salafia, che da anni viveva in India dove prestava la sua opera di chirurgo presso il lebbrosario “ Vimala Dermatological Center “di Mumbay. Desiderava imparare le tecniche microchirurgiche per operare meglio i suoi lebbrosi. Andammo così in India e lì portammo il nostro corso teorico-pratico (la Zeiss fornì, a titolo totalmente gratuito, 40 microscopi chirurgici). Facemmo scuola anche lì e oggi a Mumbay la responsabile del dipartimento di microchirurgia ricostruttiva presso il Tata Memorial Hospital dell’Università è la dott.ssa Prabha Yadav che imparò la microchirurgia in quella occasione, ne rimase affascinata e da allora la applica con successo soprattutto in campo oncologico, salvando centinaia di vite umane ogni anno.
Desidero a questo punto fare un passo indietro, in un periodo a cavallo tra gli anni ’50 e ’60 quando, giovane primario presso l’Ospedale Civile di Chieti, mi capitava spesso di visitare persone affette da grave artrosi alle anche. Andai dunque ad imparare dai maestri. La mia prima meta fu Parigi, dal grande Merle D’ Aubignè che insegnava la “ resezione testa e collo “ che toglieva sì il dolore ma lasciava una grave invalidità; la seconda meta fu l’ Inghilterra dove, all’ inizio degli anni ’60, Mckee e Charnley avevano iniziato a eseguire le protesi totali d’ anca. Tornato a Chieti decisi di mettere in pratica quanto avevo visto e imparato.
Non dimenticherò mai la notte insonne e le preghiere nella cappella dell’ Ospedale alle 5 del mattino, prima di entrare in sala operatoria per eseguire la mia prima protesi totale d’anca. Era la prima in Italia e avevo già ricevuto la benedizione di noti cattedratici con minacce di denuncia al Procuratore della Repubblica qualora fosse stato necessario rimuovere la protesi. Correva l’anno 1963 e per due anni fui il solo chirurgo italiano a fare questo tipo di chirurgia, criticato dalla quasi totalità dei miei colleghi. Ci voleva un bel coraggio a quei tempi a mettere una protesi d’anca metallica cementandola nell’ osso! Una vera e propria rivoluzione concettuale e culturale che la tecnica rendeva possibile.
Dal mio canto ho sempre creduto nel progresso e nella ricerca e poi…il veder camminare persone prima confinate nella sedia a rotelle era la più grande soddisfazione e la più bella ricompensa al mio impegno e ai i miei sacrifici.
Molti chirurghi vennero a Chieti prima, a Brescia poi, a imparare la tecnica operatoria per applicarla poi nelle loro sedi e oggi la protesi totale d’anca è un intervento di routine che dà grandi soddisfazioni ai malati, ai chirurghi e, non ultimo, alle Aziende Ospedaliere! Alla fine degli anni ’70 i numerosi malati di artrosi d’anca avevano altrettanti numerosi chirurghi ortopedici in grado di intervenire con successo per risolvere il loro problema. A Brescia avevamo raggiunto un livello di eccellenza anche in quel settore e arrivavano persone soprattutto dal Sud Italia. Quelli furono anni in cui la corsia non esisteva più, nel senso che non bastava più a contenere i malati che si ricoveravano con la speranza di entrare in nota operatoria il più presto possibile.
Numerosi erano i giovani paraplegici che arrivavano nel mio reparto nella speranza di trovare per le loro gambe la soluzione che si era riusciti a trovare per le paralisi di plesso brachiale ma tutti gli esperimenti che avevo condotto sino ad allora su modello animale purtroppo avevano dimostrato che il midollo non era permissivo a ricevere gli assoni provenienti dal cervello. Non mi scoraggiai e, convinto più che mai della necessità di continuare la ricerca sulla riparazione midollare, accettai la sfida. Dopo anni di interventi sperimentali con diversi protocolli operatori eseguiti da me in Italia e all’ estero, ebbi l’ idea di connettere, per mezzo di un innesto nervoso, i prolungamenti delle cellule nervose del cervello con i nervi di alcuni muscoli delle gambe, escludendo il midollo sottostante la lesione. Con questa tecnica operammo, tra gli altri, una giovane donna che, in seguito ad incidente stradale, aveva riportato la lesione totale del midollo a livello della ottava vertebra toracica. Gigliola, questo il suo nome, dopo l’intervento e un lungo periodo d’intensa riabilitazione, ha iniziato a muovere i primi passi, pur se rudimentalmente, prima sul girello, poi sui tetrapodi. Questo perchè i prolungamenti delle cellule cerebrali raggiungendo i muscoli, hanno formato delle nuove placche motrici, capaci di rispondere al neuro-trasmettitore glutammato proprio del Sistema Nervoso Centrale e non più all’ acetilcolina, neuro-trasmettitore periferico. Questa risposta al glutammato era assolutamente imprevedibile e ci spronò ad andare avanti nella ricerca che, grazie anche ai preziosi suggerimenti della prof. Rita Levi Montalcini, divenne una vera e propria ricerca di base multidisciplinare con il coinvolgimento degli scienziati dell’Università di Brescia . Con questi studi abbiamo dimostrato la capacità del muscolo di trasformare i suoi recettori normali acetilcolinici in recettori capaci di rispondere al glutammato che è il neurotrasmettitore dei neuroni cerebrali. Il 14 giugno 2005 la prestigiosa rivista ufficiale dell’Accademia Nazionale delle Scienze Americana P.N.A.S. (P.N.A.S., 2005, 102, 24, 8752-8757 ) ha pubblicato i risultati della nostra ricerca.
Anche un’altra prestigiosa rivista americana “ Current opinion in Neurobiology 2006 “ ha dedicato spazio al lavoro intitolando l’articolo “ Un paradigma perduto “ con chiaro riferimento al risultato ottenuto da questa ricerca che ha perso un paradigma ed ha trovato una nuova verità mai svelata né pensata da essere umano.
Non posso non pensare alla prof. Rita Levi Montalcini e al suo pensiero sulla ricerca libera e indipendente. Più di una volta l’ho sentita esortare i giovani ricercatori a portare avanti anche ricerche a rischio nella convinzione che la soluzione di tante malattie possa giungere in un futuro proprio da tutti quelli che hanno avuto il coraggio di osare.
Desidero aggiungere che tra gli atti di coraggio richiesti al medico e ricercatore di oggi, se ne chiede uno, di importanza fondamentale: il coraggio di non impadronirsi delle malattie e bisogni altrui! Soprattutto nella attuale società globalizzata dove si intrecciano differenti storie, religioni, culture, colori, dobbiamo prendere in considerazione parametri differenti. Bisogna avvicinarsi a ogni singolo individuo in modo molto discreto, a seconda delle sue reali necessità. Ogni malato deve essere coinvolto in prima persona nelle cure che gli vengono proposte e, soprattutto, deve essere libero di accettarle così come di rifiutarle.
Giorgio Brunelli